Il sole sorge in fretta ai tropici. Erano le 5 del mattino e la stanza era piena di luce. Entra con tale prepotenza, quasi sgomitando dalle finestre senza tende e non mi lascia più dormire. Sento i miei sensi riaversi lentamente dal torpore notturno, sento i passi di una vita che scorre veloce, instancabile, senza sosta e che mi tengono sveglia controvoglia. Cani che abbaiano, uomini che mercanteggiano, clascon che ringhiano, giovani chiacchiere. Improvviso arriva un frastuono di odori, odori di corpi sudati, di carne andata a male, di latrine aspre, di fiori freschi e frutta rovente già alle prime luci dell’alba. In breve, un insieme di tutto quello che è insieme piacevole e irritante, che attrae e repelle, che seduce e disgusta di questa città.
Scendo per strada, voglio tornare a casa, decido di prendere un taxi. Dopo pochi km il tassista mi dice che è tutto bloccato. Un bandh (sciopero). Gli autorickshawallas blaccano tutta l’area di Jadavpur per la mancanza di GPL alle stazioni di servizio. E’ allora che faccio l’ordinaria scoperta, ogni volta è sempre la più importante – la gente. A poco a poco tutti abbandonano taxi, autorickshaw, bus e si avviano a piedi chissà dove. E’ fantastico accorgersi come questo flusso riesca ad essere un tutt’uno col paesaggio, con quella luce, quegli odori. E’ sorprendente guardare al legame tra la gente e il territorio che abita, da quanto fermamente ogni popolazione sia radicata ai proprio luoghi, quanto sia capace di plasmarli, e quanto questi, in cambio, riescano a modellare le fisionomie di chi li abita. Era una folla ordinata, non c’era rabbia né rassegnazione per il non previsto sciopero. Ancora più sorprendente è stato l’essere consapevole del mio essere “bianca”, che fatica a tollerare scioperi improvvisi, pallida, debole, sconfitta dal caldo e dall’umidità, assetata e stanca, leggera nota stonata in quell’insieme perfetto, sincrono, armonioso.
Era quasi mezzogiorno, quando, ormai a casa, mi metto davanti al computer a leggere le poche mail ricevute. Oggi sembrava che le brutte sorprese mi rincorressero. Apro la mail di Angela…l’aspettavo. I miei occhi saltano sulle parole non leggo tutto. La piccola Phrew se n’è andata. Torno più volte su quelle poche righe…come se non capissi. Durante l’ultimo viaggio in Thailandia ero stata, insieme ad Angela, a trovarla in ospedale. I forti, continui e non curati attacchi epilettici l’avevano indebolita fina a ridurla ad un dolcissima bambola di pezza, un sondino nasogastrico le permetteva di alimentarsi, le sue mani non aveva mai tenuto un giocattolo, le sue gambe non avevano mai retto il peso del suo corpo ma se aveste visto i suoi occhi e il suo sorriso…riusciva chiaramente a riconoscere Angela, lei che le aveva dato un’alternativa al nero carbone del Pharam 6 (uno dei 2000 slum di Bangkok).
Da buona agnostica non credo certo nei miracoli ma quel giorno, lì al Sirikit Hospital di Bangkok, ho assistito a qualcosa che goffamente definirei non ordinario, forse non completamente esatto, ma sembrava quasi innaturale. Il sorriso vero, sincero, felice di una bambina che è visibilmente soffriva e la forza, la dedizione, la tenacia, anche testardaggine a volte, di colei a tutti i costi ha tentato di darle un’ esistenza dignitosa. Adesso andrò a letto, è ancora chiaro il ricordo del dolce sorriso di Phrew. Domattina un altro risveglio a Calcutta. Spero di ritrovare gli stessi odori, gli stessi suoni, la stessa gente per strada, gli stessi bambini, consapevole che a volte cose che si considerano innaturali, difficili, irraggiungibili…accadono.